Parlare della relazione tra uomo e cavallo ci costringe a guardare indietro, al primo umano che catturò, mangiò e poi addomesticò un cavallo. Cinquemila anni fa, più o meno, una lunga storia che si è evoluta con la specie umana, e certamente grazie alla specie equina.

In principio era la magia, quella che faceva disegnare agli uomini preistorici di Lascaux branchi di cavalli inseguiti dai cacciatori: una proiezione del desiderio di tornare con una ricca preda, e il pensiero magico di raffigurare una scena, come se fosse già successa, e farla così realizzare “per davvero”.

Le prime catture a scopo alimentare, i recinti in cui tenere “cibo vivo”, la doma, e la scoperta della docilità del cavallo, forte e irruente, ma in fondo grosso erbivoro predato.

Da qui in poi, è storia: sellato o attaccato ai carri e all’aratro, rapido mezzo di locomozione e macchina da guerra e da fatica, il cavallo ha realmente contribuito a fare l’uomo, prestandogli forza e potenza.

La meccanizzazione degli ultimi duecento anni ha gradualmente spinto il cavallo al margine delle attività produttive primarie, mentre attraverso lo sport si è sublimata la guerra, e le “monte da lavoro” sono diventate sport.

Ieri e oggi, uomo e cavallo hanno lavorato insieme, diventando artefici e protagonisti di una storia comune. Domani che succederà?

Prima di spingerci nell’inesplorato territorio del futuro, sarebbe forse opportuno capire il perché di una relazione tanto antica, i motivi che l’hanno resa non solo così duratura, ma soprattutto tanto profonda e forte.

Perché il cavallo e non la mucca, o il cane, così presente anch’esso nella storia umana? Il cane è stato adottato come “migliore amico”, anche se poi le qualità che lo rendono tale sono più vicine a quelle del fedele servitore o del sottoposto nel branco in cui l’uomo è il capo. La mucca è indubbiamente meno dinamica del cavallo, e forse per questo è rimasta relegata al ruolo di “fabbrica di latte e carne”, un bene strumentale più che una possibile interlocutrice.

Il cavallo no: il cavallo è sentito dall’uomo come pari grado, nella diversità. L’uno porta l’altro, che lo guida, in una sinergia tra due esseri complementari. Anche la simbologia del Centauro sembra andare in questo senso: il cavallo rappresenta la parte bassa e istintuale, l’uomo ci mette la testa: ognuno dà il meglio di sé nella creatura ibrida. Pensiamo invece al Minotauro, istinti bassi mutuati dall’uomo e testa di toro: cambiando l’ordine dei fattori, in questo caso, il prodotto cambia, e la creatura nel Labirinto è indiscutibilmente un mostro, mentre il Centauro riesce a farsi perdonare gli eccessi animaleschi con una scienza superiore a quella umana.

Forse, allora, il cemento della relazione è proprio la complementarità, in una declinazione possibile degli opposti che si attraggono. Uomo e cavallo sono diversi, ma insieme stanno bene, perché si completano. Questo è stato chiaro in passato, nei simboli come nella storia, ed è evidente ancora oggi, con il nuovo – o rinnovato- interesse verso l’individuo-cavallo: basti pensare alle discipline etologiche, la “doma dolce” in testa, alle proposte di legge contro il commercio a scopo alimentare del cavallo o a quella sulla polivalenza del suo impiego, e –non ultima- all’attenzione verso le sue doti di (co)terapeuta nella riabilitazione.

Un esempio di quanto sia capillare la presenza della “cultura equestre” nella nostra società viene proprio in questi giorni da un prestigioso e autorevole mensile di moda. Dopo avere ribadito che tra le tendenze in della stagione autunno-inverno ci saranno linee e accessori mutuati dal mondo dell’equitazione o dei cowboys, il numero in edicola propone tre articoli ambientati nel mondo equestre o con riferimenti ad esso. Il cavallo appare anche nelle pubblicità: in una lo vediamo bianchissimo sulla soglia di quello che sembra un labirinto, al fianco di una fanciulla. Sempre con una ragazza, un’altra casa di mode lo rappresenta come un Arlecchino, forse pensando al piacere di giocare con il cavallo e con i colori. Ma non basta: su una delle pagine dedicate agli accessori, campeggia a mo’ di titolo, l’ormai popolare termine di Ippoterapia, a suggerire probabilmente il valore terapeutico dello shopping, se le cose acquistate sono in qualche modo legate al cavallo. La moda, cui è chiesto di cogliere i tempi e anticiparli, fa il suo dovere.

Interessante seguire il cammino dell’ippoterapia, prescritta come cura anti-insonnia da Ippocrate di Coo tra il quarto e il quinto secolo a.C. , e oggi approdata su un giornale di moda. In mezzo, anni e anni di lavoro di professionisti che si sono inventati pionieri di una pratica la cui validità è ormai riconosciuta sul campo, ma non ancora in Parlamento. Se è auspicabile che questo accada in tempi brevi, previa sperimentazione scientifica, per consentire agli “ippoterapeuti” di avere percorsi formativi e regole comuni, garantendo agli utenti il diritto di scegliere una cura ufficiale e per questo mutuabile, ancora più necessario è ripensare l’intero mondo che ruota attorno al cavallo, proprio in virtù della relazione privilegiata che lo lega alla storia e alla cultura dell’uomo.

Cavallo “pervasivo”, abbiamo visto, e davvero “polivalente”, se campeggia nella moda e in pubblicità, nello sport e nelle pratiche riabilitative: cavallo sociale, cavallo nel sociale.

Equitazione sociale, forse?

Diversi ma non estranei, colleghi e compagni dalle diverse (e ugualmente valide) competenze, uomo e cavallo hanno a lungo camminato insieme su una strada non facile e ancora molto lunga. Il territorio da attraversare è quello del sociale, un terreno di gioco e di scambio, oggi che al cavallo viene riconosciuto pieno status di interlocutore.

Senza “scendere in campo”, ma tracciando un percorso partito da lontano, uomo e cavallo raggiungeranno insieme nuove destinazioni: dove e con quali nomi, forse, è ancora presto per dirlo. E poi, si sa, quello che conta, in un viaggio, è il cammino più della meta.

un cavallo per amico

 

Luisella Battaglia

Per chi suona la campana dell’ingratitudine?

Un vecchio cavallo scacciato dal padrone giunge, nel suo vagabondare, in una cappella dove mette casualmente in movimento una campana che vien fatta suonare da quanti siano stati vittime di un’ingratitudine. L’antico racconto greco, ripreso da Immanuel Kant nelle Lezioni di etica, fa parte di una complessa argomentazione relativa ai nostri doveri verso gli animali. Dal modo in cui tratta questi ultimi può conoscersi, secondo il grande filosofo tedesco, il cuore di un uomo.<Un padrone che scacci via il suo asino o il suo cane, perché ormai inservibili, rivela un animo meschino>. Kant parte dalla constatazione che, poiché gli animali posseggono una natura analoga a quella degli uomini, se essi hanno servito a lungo e fedelmente il loro padrone ciò si configura come un’azione meritevole che, pertanto, richiede la nostra lode; quando essi non saranno più in grado di renderci i loro servizi dovremmo trattenerli presso di noi fino alla morte. In tal modo, <osservando dei doveri verso di loro, osserviamo dei doveri verso l’umanità, promuovendo con ciò i doveri che la riguardano>.

 A questa visione mi sembrano sostanzialmente ispirarsi le proposte di legge  che intendono proibire l’uccisione di cavalli che hanno lavorato per tanti anni con e per l’uomo; creare delle oasi in cui ospitare i cavalli anziani; vietare l’utilizzo di cavalli in gare, corse, spettacoli contrari alla loro natura; impedire menomazioni fisiche dolorose e l’allontanamento dalla madre dei piccoli puledri; istituire un’anagrafe equina; proteggere anche tutti gli altri equidi: asini, muli, bardotti.

 Al centro delle  suddette proposte è, come si vede, l’idea di considerare il cavallo un <animale di affezione>, di farlo passare dalla categoria dei buoni da mangiare a quella dei buoni da pensare, per riprendere la classificazione che adoperiamo ordinariamente per distinguere gli animali, rendendo gli uni-- i cosiddetti ‘animali familiari’, cani, gatti etc.—dei soggetti degni di rispetto e di considerazione morale e gli altri—i cosiddetti ‘animali da reddito’, vitelli, maiali, etc.—degli oggetti che valgono quanto vale il prodotto finale cui danno origine.

 La distinzione, in realtà, è del tutto convenzionale, non rispecchia certo un ordine naturale (anche se spesso abbiamo la tendenza a ritenere naturale ciò che la nostra cultura ci ha insegnato). Un esempio? In taluni paesi, come la Cina, si considerano ‘buoni da mangiare’ animali—i cani, appunto—che per noi sarebbe impensabile ritenere commestibili.

 L’origine culturale della classificazione emerge nettamente dinanzi a un animale, come il cavallo, che rappresenta un tipico ‘caso di confine’, in quanto appartiene a entrambe le categorie. Proprio tale ambivalenza--la contemporanea appartenenza a due mondi per noi incomunicabili—se, da un lato, evidenzia la convenzionalità delle ragioni che presiedono alle nostre classificazioni, dall’altro, ci mostra che dipende drammaticamente  solo da noi, da una nostra decisione promuovere un animale dalla sfera degli oggetti a quella dei soggetti.

 Perché, ci si potrebbe chiedere, quest’attenzione particolare per i cavalli? Forse perché nei loro confronti l’uomo ha contratto un debito assai speciale: bestia da soma, carne da macello, compagno d’arme e di giochi sportivi, il cavallo è stato un vero e proprio ‘ausiliario dell’uomo’ nella sua storia millenaria. Quanto durerà la nostra ingratitudine per la sua fedeltà, la generosa dedizione, la silenziosa amicizia?

 In pagine indimenticabili Omero attribuisce ai cavalli di Achille, Xanto e Balio, intelligenza, comprensione degli eventi, affetto, capacità di soffrire. Lacrime cadono dai loro occhi per la morte di Patroclo che hanno visto soccombere sotto i colpi di Ettore: oppressi dal dolore, piegano le teste e le belle criniere fino a terra, rifiutando di muoversi malgrado gli incitamenti del loro auriga. Ne ha pietà perfino Zeus che si rammarica di aver donato al mortale Peleo cavalli immortali, destinandoli così a tanti patimenti.

 Nel deprecare le atrocità commesse ai danni di animali al servizio dell’uomo, il filosofo Schopenhauer rileva come <i cavalli anche in vecchiaia vengono strapazzati fino allo stremo delle forze finché non crollano sotto le bastonate del padrone>e conclude: <il più grande beneficio arrecato dalle ferrovie è che esse risparmiano un’esistenza disgraziata a milioni di cavalli da tiro>.

 Oggi viviamo in un mondo che sempre più, grazie alle tecnologie, riduce la nostra dipendenza dal lavoro animale; oggi saremmo in grado—se solo lo volessimo—di vivere con gli animali e non più contro di loro o a spese loro.

 Mi piace pensare ,con Milan Kundera, alla scena di Nietzsche che a Torino abbraccia il cavallo percosso a sangue dal vetturino. Abbracciare un cavallo! Nietzsche è folle, come ci hanno insegnato a scuola, oppure—è l’idea bellissima di Kundera —è savio perché, in realtà, sta chiedendo, col suo gesto, perdono per l’errore commesso da Cartesio: quello di aver considerato gli animali come ‘macchine’?

PETIZIONE PER L’INSERIMENTO DEL CAVALLO FRA GLI ANIMALI DA AFFEZIONE

Al Palamento Europeo

                 Al Parlamento Italiano

               PETIZIONE per

L’INSERIMENTO DEL CAVALLO FRA GLI ANIMALI DA AFFEZIONE

Considerato che da sempre il cavallo ha scritto la storia insieme all’uomo

considerato che il cavallo protagonista in terapie di sostegno per disabili ,traumatizzati,contro stress- depressione e varie patologie di disagio mentale e sociale stabilisce con l’uomo un rapporto di affezione  anche di per sé riabilitativo(ippoterapia)

considerato che i cavalli dell’esercito sono stati  di recente – in Italia- risparmiati da aste e macello ed è stato loro riconosciuto il diritto ad una serena pensione

considerato il riconoscimento loro dovuto per i successi fatti riportare nei concorsi ippici /attività sportive,agonistiche  e ludiche

considerata infine l’evoluzione culturale e la nuova attenzione verso la condizione animale

noi sottoscritti

chiediamo

noi sottoscritti:

 

nome                                                                                                                                                         

e.mail………………………………………………………………………………………………..

via……………………………………………………………………………………………….

città …………………………….cap…………………tel…….. ……………………

FIRMA………………………………………………………………………………………                                                                                                                                                 

 quando e'accaduto che l’uomo e il cavallo si sono incontrati per la prima volta e soprattutto come è avvenuto questo incontro? I dati archeologici in materia sono pochi, incerti e frammentari e se sono in grado di darci qualche vaga indicazione sul quando, non possono purtroppo dirci nulla sul come. Più che di dati, comunque, sarebbe giusto parlare di indizi, teorie, interpretazioni che utilizzano una serie di prove indirette. Su una cosa però concordano tutti: le prime tracce di una presenza “domestica” del cavallo non risalgono a prima di 7.000 anni fa.
Due sono i siti più studiati:  quello di Dereivka ( in Ucraina) e quello  di Krasni Yar ( in Kazakistan) entrambi databili intorno a quella data.  L’antropologo americano David Anthony, che si è occupato appunto del sito di Dereivka,  ritiene di aver individuato nei resti dei cavalli rinvenuti in loco i segni di una usura dei premolari che testimonierebbe l’utilizzo del morso. A confermare tale ipotesi è giunta la scoperta, in un deposito rituale, delle ossa di uno stallone al cui fianco erano stati disposti dei frammenti perforati in corno di cervo, che avrebbero potuto essere i sostegni di una rudimentale imboccatura di corda. Secondo il dottor Anthony, questo starebbe a significare non solo la presenza di cavalli domestici, ma addirittura il loro utilizzo a sella (o meglio a “pelo”) visto che la ruota al tempo non era ancora stata inventata.
Si tratta però, come dicevo, di ipotesi altrettanto autorevolmente smentite da altri studiosi che sottolineano come la presenza di scheletri equini, in questi siti preistorici, potrebbe essere del tutto occasionale e comunque limitata ad utilizzazioni di tipo rituale. Il collegamento simbolico del cavallo ai riti funerari e al viaggio che attenderebbe l’anima dopo la morte si perde infatti nella notte dei tempi.
Certo è possibile che qualche rappresentante della specie sia stato adottato in tenera età da qualche gruppo umano. Ed è possibile pensare che qualche ardimentoso (o incosciente?) abbia avuto l’alzata di ingegno di montarci sopra, ma da qui a parlare di allevamento del cavallo e del suo utilizzo equestre ce ne corre.
Comunque siano andate le cose, per trovare  i primi dati storici certi dobbiamo spostarci di molto nel tempo e nello spazio.  Lo spazio è l’Anatolia ( la moderna Turchia), il tempo circa 4000 anni fa. E’ in questo luogo che sono stati rinvenuti degli scritti e dei manufatti che testimoniano dell’utilizzo in guerra del carro trainato da cavalli. Va tenuto conto che almeno durante il primo lungo periodo dell’addomesticazione del cavallo, il suo utilizzo era soprattutto come “forza motrice” sia in pace che in battaglia. Ma la cosa più sorprendente è che in una lettera di un “ comandante” siriano indirizzata a un nobile locale e datata 3.750 anni fa, si fa osservare che per la dignità del suo stato non doveva presentarsi a cavallo bensì su un carro trainato da cavalli! La cosa a pensarci bene non sorprende poi tanto: l’equitazione senza sella né staffe non doveva essere al tempo un’attività né facile, né piacevole né, soprattutto, sicura.  Non è un caso, quindi che il primo trattato di “ippologia” di cui abbiamo memoria storica ci racconti le tecniche di addestramento del cavallo attaccato al carro da guerra. Si tratta di un’opera risalente a circa 3.500 anni fa scritta su tavolette di argilla, della quale ci è noto anche il nome dell’autore, il guerriero Hittita Kikkuli. Poi per mille anni è il silenzio fino alla cultura greca e alle opere di Simone di Atene e di Senofonte…ma questa è un’altra storia.

I presunti progenitori del cavallo sono apparsi sulla terra circa 55 milioni di anni fa.Gli evoluzionisti hanno una buona conoscenza del processo evolutivo che ha portato alla specie attuale (vedi anche Evoluzione del cavallo). Gli studi sui fossili dimostrano che il probabile progenitore dell'odierno cavallo (Hyracotherium) era alto non più di 30-40 cm al garrese ed i suoi arti avevano almeno 4 dita; il suo ambiente era la foresta ed aveva una dentatura di tipo onnivoro. Durante il processo evolutivo, i suoi discendenti si adattavano progressivamente alla condizione di erbivori stretti e alla vita nelle praterie; la statuta aumentava, gli arti diventavano più lunghi, diminuiva il numero delle dita e i denti si modificavano progressivamente aumentando in lunghezza e nei caratteri della superficie masticatoria. Il cavallo odierno, Equus caballus, e gli altri appartenenti del genere Equus poggiano sull'unico dito rimastogli: il medio. In America, il cavallo si estinse in epoca preistorica, contemporaneamente ad altri grandi mammiferi; fra le ipotesi per tali estinzioni, il disturbo antropico costituito dalla caccia da parte dell'uomo. Sopravvissuto in Europa e Asia, la prima evidenza storica dell'addomesticamento del cavallo si ha in Asia Centrale verso il 3000 a.C. Un progenitore dei cavalli attuali è considerato il tarpan, un cavallo selvatico europeo ufficialmente estinto nel 1876.Quando, nel 1519, l'esigua schiera di Spagnoli capitanata da Ferdinando Cortes s'inoltrò fra le gole e i deserti del Messico, si vide fatta segno da parte degli indigeni a straordinarie manifestazioni di rispetto e di deferenza: gli Aztechi veneravano nei pallidi guerrieri venuti dal Levante i compagni di Queztalcoatl, il dio fondatore della stirpe, signore del tuono e della folgore, dal torso d'uomo e dal corpo belluino. Non avevano mai visto un cavallo, quegli ingenui sudditi di Montezuma, e credevano che gli Spagnoli fossero tutt'uno coi loro animali, come giganteschi centauri. In America, infatti, fino all'arrivo degli europei, il cavallo era del tutto sconosciuto: e ciò appare piuttosto strano a noi, che siamo abituati da millenni a considerarlo come il compagno indivisibile dell'uomo in tutte le sue imprese di guerra e di conquista. In Europa e in Asia esso compare fin dalla più remota preistoria; senza risalire all'età paleolitica (sulla parete di una grotta della Dordogna è dipinto un bellissimo cavallo in corsa, che risale a forse 50.000 anni fa), basta pensare alle civiltà degli Arii in India, dei Cinesi e dei Giapponesi in Estremo Oriente, degli Assiri e degli Ittiti nel Mediterraneo, per vedere, protagonista di ogni fatto storico, l'uomo a cavallo. Greci e Romani avevano per i cavalli, per le corse dei cocchi, per l'equitazione, una passione che rasentava il fanatismo: Caligola, il folle imperatore, arrivò a creare senatore il suo cavallo Incitatus, e a fargli costruire una scuderia di marmo e d'argento. Dalle gradinate del Circo Massimo le grida frenetiche di 200.000 spettatori accompagnavano il galoppo delle quadrighe; spesso, fra i sostenitori delle due parti avverse, scoppiavano zuffe sanguinose. Crollò anche l'impero romano, con la sua decadente e raffinatissima civiltà forse una delle poche cose che sopravvissero a tanto sfacelo fu l'arte equestre, che si venne sempre più affermando come privilegio della nobiltà. Le pianure di Maremma e di Normandia fornivano ai cavalieri medioevali i massicci stalloni da guerra, capaci di sopportare il peso delle grevi armature: e si può dire che, dal XII fino al XVII secolo, fino a quando, cioè, gli Inglesi cominciarono ad incrociare i loro cavalli con quelli arabi, gli allenamenti, i metodi, e i mercati italiani dominarono il mondo ippico d'Europa. Oggi esistono decine di razze equine, spesso assai diverse l'una dall'altra, adatte ai più svariati compiti. Così l'Hackney, inglese, un bel animale dalle forme robuste, che si presta sia al tiro leggero che alla sella; il Pony, piccolo e tozzo la cavalcatura prediletta dai bambini; il cavallo da polo, simile al precedente, allevato appositamente per questo gioco; lo Shire, un mastodontico cavallo da tiro, dalle zampe larghe e pelose, pesante fino a 10 quintali. In Oriente dominano il cavallo Arabo e il Berbero; piuttosto piccolo il primo, grigio pomellato, resistente e velocissimo; più robusto, di mantello rosso o roano, il secondo. Da incroci fra cavalli arabi e inglesi è nato, come si è detto, quel magnifico campione di velocità e di resistenza che è il purosangue inglese, dominatore degli ippodromi. Ottime razze sono pure la Normanna, adatta al tiro pesante, e l'Andalusa, indigena della Spagna, che produce cavalli vivaci e di bell'aspetto. In Italia abbiamo l'eccellente cavallo Sardo (o meglio, Arabo-Sardo, perché ottenuto originariamente da incroci con Arabi), il Maremmano, che costituiva il nerbo della nostra cavalleria, il Lipizzano, uno splendido cavallo di parata che si alleva nell'Istria, dal pelame bianchissimo. Da più di un secolo sono stati importati alcuni esemplari di purosangue inglesi da corsa; oggi gli allevamenti italiani di galoppatori sono tra i primi al mondo (gli sportivi ricordano ancora il grande Nearco, il puledro italiano che passò come un trionfatore sugli ippodromi d'Europa; fu venduto ad allevatore inglese per una somma pari a quattrocento milioni di lire). Nelle corse al trotto dominano invece, incontrastati, gli allevatori americani; anche i trottatori europei sono tutti originari d'oltre Atlantico. L'equitazione, che in Italia è stata rivoluzionata dal capitano Caprilli, ha raggiunto forse il suo massimo livello tecnico; è difficile pensare che i cavalieri futuri riescano a trovare qualcosa di nuovo in un'arte che viene praticata da migliaia d'anni. L'allevamento, invece, attende dalla scienza nuovi impulsi; effettivamente, oggi otteniamo cavalli migliori di quelli che si avevano solo cent'anni fa, tant'è vero che i record's sul miglio si abbassano di anno in anno. Il purosangue che vediamo sfilare davanti alle trincee prima della corsa, fremente di vita sotto il serico mantello baio o sauro, è il frutto di lunghi studi, di sapienti accorgimenti: per accrescerne le doti di resistenza e di velocità, per adattarlo al terreno elastico o pesante, per imprimergli lo spunto veloce ai nastri o sul traguardo, allevatore e trainer hanno dovuto spiegare tutta la loro esperienza e la loro sagacia. E quando il puledro rientra al peso, madido di sudore e con gli occhi iniettati di sangue, dopo la vittoriosa galoppata sulla pista erbosa, gli uomini che l'hanno curato e allenato lo accarezzano con gli occhi umidi dalla commozione: e in quel gesto è tutto l'amore dell'uomo verso il nobile animale che dai lontani, oscuri giorni della preistoria lo ha accompagnato nel suo lungo cammino.Testi tratti da:Enciclopedia VITA MERAVIGLIOSA Edizioni M. Confalonieri.
Il Tarpan
 
Il tarpan (Equus ferus gmelini) è una sottospecie di cavallo selvatico europeo, estinto nel 1876, progenitore dei cavalli attuali. Negli anni Venti del XX secolo due zoologi tedeschi, i fratelli Lutz e Heinz Heck, tentarono di ricostruire la razza dei tarpan attraverso esperimenti di selezione. Heinz Heck fondò lo zoo di Monaco e ne fu direttore per molti anni, mentre Lutz Heck ricoprì la stessa carica allo zoo di Berlino. I due fratelli si erano già dedicati alla ricerca per far tornare in vita anche un'altra specie estinta di mammifero ungulato europeo: il bue selvatico, chiamato Uro. Incoraggiati dal successo ottenuto con gli uri, i fratelli Hack passarono alla realizzazione del tarpan. Dapprima selezionarono alcune razze di pony, dato che il tarpan era più piccolo dell'attuale cavallo. C'erano però due problemi; in primo luogo non esistevano razze di cavalli domestici che avessero il mantello di color grigio-topo tipico del tarpan, e in secondo luogo, nessuna razza esistente del cavallo aveva la caratteristica criniera corta e dritta dei tarpan. Il problema della criniera venne risolta con una sottospecie superstite dei cavalli selvaggi, i Przewalski della Mongolia. Il color grigio-topo venne invece risolto naturalmente, infatti tale colore apparve spontaneamente in alcuni puledri appena nati. Come già avvenuto per gli uri, i neo-tarpan risultarono più resistenti alle infezioni e al rigido clima siberiano rispetto ai cavalli domestici. Alcuni tarpan così ricreati furono introdotti nel Parco Nazionale polacco di Biebzra e, nel novembre del 1995, alcuni esemplari furono portati dalla Polonia alla riserva naturale della East Anglian in Gran Bretagna. Nel luglio del 1996 una femmina diede alla luce un puledro. Era il primo tarpan che nasceva in Gran Bretagna dopo più di 10.000 anni..